Allevamenti etici e benessere animale

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Allevamenti etici. Sono la novità del mercato: carne, latte, presto le uova, etichettate e certificate “benessere animale”. Che cosa vuol dire? Che cosa c’è di diverso rispetto ad altri metodi di allevamento, come quello biologico, per esempio? Ma quanto è migliorata la vita di mucche, polli e maiali da quando è comparsa l’etichetta “benessere animale”. Quanto siamo davvero consapevoli come consumatori che le aziende che appongono l’etichetta siano davvero sostenibili?

In Italia solo 1% di allevamenti carne sostenibili

Secondo alcuni studi, oggi solo una porzione irrilevante degli allevamenti segue questi standard in Italia, meno dell’1% del totale, ma questo non sarebbe un fattore del tutto negativo. Molti esperti rivelano che anche le tipologie di allevamenti non intensivi, come quello biologico, possono comportare un impatto ambientale rilevante, che in determinati casi risulta addirittura superiore a quello generato da sistemi di allevamento intensivo.

Le criticità dell’allevamento estensivo e biologico

Uno dei fattori più critici riguarda lo spazio necessario per tutelare il benessere animale: ad esempio, per una scrofa in un allevamento intensivo servono in genere 1,5 metri quadrati, mentre lo standard biologico impone circa 1.500 metri di spazio. Questo ovviamente fa sorgere una forte problematica dell’uso del suolo, a cui si aggiungono considerazioni tecniche sulla maggiore lentezza nel raggiungere la taglia commerciale degli animali, che ha conseguenze sul maggior consumo di risorse e anche su un maggiore inquinamento.

L’allevamento etico

Secondo il manifesto di Allevamento Etico, i criteri di eticità dell’allevamento riguardano sia l’attività dell’azienda che il trattamento degli animali. In primo luogo, infatti, è fondamentale che almeno il 50% del cibo per gli animalsia prodotto direttamente nell’azienda, che può così incrementare in maniera naturale la fertilità dei terreni, trasformando un elemento potenzialmente inquinante in una risorsa per il territorio. 

Altro elemento cruciale è la trasparenza: ci si aspetta, infatti, che un allevatore etico conosca la provenienza del mangime che acquista e che prediliga prodotti non OGM e a basso impatto ambientale. Si richiede, inoltre, l’obbligatoria presenza di un piano alimentare rispettoso delle esigenze dell’animale: la dieta dev’essere adeguata alle necessità fisiologiche ed etologiche.

Ci sono, poi, una serie di criteri che riguardano più strettamente il trattamento riservato all’animale. Si sottolinea, per esempio, che vadano assolutamente rispettate le cinque libertà a tutela del benessere della specie allevata, considerata come composta da “esseri senzienti”.

  • gli animali devono essere liberi e possono essere legati solo su indicazione di un veterinario, che ne determina anche la durata e chiarisce le motivazioni; 
  • gli animali devono essere in salute, nutriti secondo quanto anticipato e non devono presentare lesioni di nessun tipo, in particolare di tipo cronico;
  • gli spazi dell’allevamento devono essere confortevoli, puliti e asciutti sia d’inverno che d’estate, e devono permettere agli animali di manifestare il loro comportamento di specie;
  • gli ambienti e le strutture devono essere sicuri e non provocare alcun trauma agli animali;
  • gli ambienti devono essere ben ventilati ed esposti alla luce solare, a seconda di quanta ne necessitano gli animali.

Le etichette, i controlli le certificazioni

Le aziende che attualmente etichettano i propri prodotti come “allevamento etico” devono (dovrebbero) quindi rispettare il manifesto e le citate libertà. MA è davvero sempre così? Vi è un vero disciplinare al quale attenersi e un vero organismo di certificazione? Quanto è su base volontaria? E quanto effettivamente rendicontato. Per quanto emerso nell’ultima puntata della trasmissione di Raitre “indovina chi viene cena”, esistono ancora molte zone grigie, e ci sono alcuni produttori, diciamo, meno accorti e attenti che hanno interpretato in maniera molto personale e soggettiva tali regole, il tutto non solo a danno di chi realmente applica i principi etici, con relativi costi e maggiorazioni sul prezzo ì, ma anche a scapito degli allevamenti biologici.

E se si chiamassero sostenibili?

Certo crediamo fortemente nelle intenzioni di tutto coloro che hanno redatto e poi aderito al manifesto etico degli allevatori ricordando che Italia esiste un Piano nazionale per il benessere animale ed è attiva una rete di controllo nazionale per verificare che determinati standard previsti per legge siano rispettati negli interessi del consumatore crediamo ci sia ancora un vuoto: quello della rendicontazione in termini di sostenibilità dell’allevamento con rilevazioni, fatti, outcomes certi e oggettivi basati su sistemi e metodi ispirati agli SDG’S. Questo si che tutelerebbe innanzitutto i consumatori e poi, ovviamente le azienda che in maniera seria applicano i principi di eticità e sostenibilità sostenendone anche i costi e divenendo meno competitive in termini di prezzo finale.

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